Dopo la tempesta

La versione di Wennie

Stefano Galieni - 17 Novembre 2013

Wennie Flores è la Chairwoman dell’Organizzazione dei lavoratori filippini per lo sviluppo Umangat, un’organizzazione progressista che opera nella provincia di Roma. «Avevamo già programmato una riunione nella piazza in cui ci incontriamo, Piazza Manila, ma con quello che è successo abbiamo deciso di dare un altro segno al nostro appuntamento domenicale. Ci siamo incontrati per dare una mano ai nostri connazionali colpiti dal tifone – riprende – per pregare e per raccogliere un po’ di fondi ma non solo».
Con Wennie, durante il nostro colloquio, ci sono due membri di Umangat, Anna, Ely e Teddy Dalisay, coordinatore dell’organizzazione internazionale Migrant’s Alliance. «Stanno arrivando trilioni di pesos di aiuti (1 euro corrisponde a 55 pesos) ma temiamo che molti, frutto della generosità mondiale non giungeranno mai a chi ne ha bisogno ma serviranno ad alimentare la corruzione», dice Anna. «Le donazioni sono importanti, bisognerebbe anche poter controllare l’uso che ne viene fatto». «Questo tifone è stato molto potente – aggiunge Ely – ma le Filipine sono sempre state spazzate dai tifoni. Il problema è che non c’è nessun piano per la messa in sicurezza delle zone più esposte». Al contrario, quelle colpite da quest’ultima sciagura sono state devastate dalle estrazioni minerarie e dal disboscamento: «Tagliano gli alberi, scavano, si impadroniscono di ogni risorsa e nel frattempo nessuno ha messo in sicurezza le case di chi vive in quelle isole», spiega Teddy. «È povera gente di cui non importa niente a nessuno. L’esercito pensa a difendere i centri commerciali assaliti da chi ha fame e non a garantire di che nutrirsi. Non è la natura che si è accanita su di noi, ma sono le scelte degli uomini».
Il gruppo, molto attivo nella capitale, ha un chiaro orientamento politico, lavora molto anche con il resto della comunità ma ha propri specifici punti di vista. Fra loro emerge una forte preoccupazione per l’arrivo massiccio di navi militari, statunitensi, inglesi, russe e giapponesi. Non credono si tratti solo di presenza solidale quanto del tentativo di mantenere il controllo delle ricchezze presenti nell’area. «Il nostro paese è ricco – ricorda Wennie – c’è la seconda riserva aurifera del mondo e poi petrolio, metalli di ogni tipo preziosi nel mercato di oggi. Ricchezze controllate da pochi e che sono state anche la nostra rovina. Nonostante tante possibilità, siamo stati costretti a emigrare. Nel passato per noi era la sola soluzione, oggi non più. Oggi ci ritroviamo con due problemi: il primo, dovuto alla crisi, è quello del lavoro; il secondo è legato alla difficoltà di integrarsi».
Wennie e gli altri di Umangat si riuniscono la domenica in una sede dell’Usb (Unione dei sindacati di base), hanno relazioni con alcuni avvocati per risolvere soprattutto cause di lavoro e si confrontano frequentemente con la propria ambasciata. Noi cerchiamo di parlare dei problemi concreti. Abbiamo affrontato negli anni scorsi i decreti flussi e poi, nel 2011, il problema del middle name, ma senza risultati». Middle name? I documenti filippini contengono un nome proprio, un middle name che rimanda al cognome della madre e il cognome paterno. Nei documenti italiani avvenivano spesso errori e il middle name veniva considerato come nome proprio. Risultato: i documenti italiano e filippino non corrispondevano e così ogni forma di certificazione, dall’agenzia delle entrate all’Inps all’anagrafe. Il nostro ministero dell’Interno, su suggerimento dell’ambasciata, è intervenuto con una circolare. I cittadini filippini che nascono in Italia oggi non hanno più il middle name, chi invece deve adeguarsi spende ad oggi 32 euro di certificati.

Stefano Galieni