Intervista a Françoise Sironi

- 24 Novembre 2013

francoiseSIRONI-300x300-1Etnopsicologa, è la fondatrice della psicologia geopolitica clinica, insegna all’unversità di Parigi 8 e lavora come perito presso la Corte d’appello di Parigi e la Corte Penale internazionale dell’Aja. Françoise Sironi ha scritto anche parecchi libri. Il più conosciuto, in Italia, è Carnefici e vittime (2001). L’abbiamo incontrata in occasione di una sua lezione tenuta presso il Centro Studi Sagara di Pisa.
Partiamo dai fondamentali: che cos’è l’etnopsichiatria?
«È un approccio clinico “culturalmente informato”, un approccio in cui ci si focalizza, cioè, sull’appartenenza culturale della persona che sta male. La sofferenza psichica, pur in presenza di alcuni elementi di universalità, è influenzata dall’orizzonte culturale in cui ci si muove. A seconda del contesto, si manifesta e si affronta in modi differenti, perché in modo diverso, a seconda del contesto, ci si rapporta a questioni fondamentali: chi è un uomo, da dove viene, dove si va dopo la morte, qual è il significato della malattia… L’etnopsichiatria permette di prendere in esame la cultura del paziente durante la terapia psicologica. Questo non vuol dire che lo psicoterapeuta o lo psichiatra debbano fare proprio il punto di vista del paziente (per esempio, la credenza nei jinn) ma certamente devono riconoscerlo e tenerne conto. Se domandiamo al migrante di lasciare da parte i propri riferimenti culturali, l’operazione di presa in carico sarà per forza di cose parziale e meno efficace».
E cos’è la psicologia geopolitica clinica?
«Nella sofferenza psichica hanno un ruolo – in genere sottovalutato – anche gli aspetti politici e la violenza collettiva, nelle sue diverse forme e gradazioni. L’approccio geopolitico tiene conto dell’articolazione tra il collettivo, il contesto politico ed economico e come tutto ciò influenzi l’individuo».
Cie e respingimenti alla frontiera possono essere rubricati come esempi di violenza collettiva?
«Assolutamente sì. Sono violenze intenzionalmente indotte, espressioni di una visione del mondo che è tragicamente proiettata nella chiusura. E non ha davvero senso che un terapeuta che si stia occupando di persone passate attraverso queste esperienze riconduca tutto a sofferenze interne, a vissuti della prima infanzia o a edipi irrisolti».
L’esperienza della migrazione forzate espone spesso a situazioni traumatiche e, quindi, al disagio psichico. Le culture reagiscono in maniera differente?
«Per quanto riguarda le vittime di tortura e di violenza politica direi di no. Quando si parla di violenza politica ci possono essere delle differenze culturali, ma sono minime. Tutti quelli che sono stati torturati o hanno subito violenza politica hanno gli stessi sintomi. Anche se li esprimono in maniera differente. Spesso i pazienti che visitiamo ci dicono di sentire le voci, poi con un’indagine approfondita, scopriamo le voci che sentono riportano proprio parole che gli sono state rivolte dai torturatori».
Le vittime di tortura si presentano spesso come apatiche, bloccate, impaurite e con grandi difficoltà ad affrontare il presente. Hanno interiorizzato il torturatore. Come possono disfarsene?
«Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Le variabili sono moltissime. Di certo il lavoro che va fatto con le vittime di tortura è quello di metterle nelle condizioni di difendersi dal torturatore interiorizzato. Il terapeuta deve allaearsi col paziente e aiutarlo a combattere questo torturatore».
Ma chi sono i torturatori reali?
«Non si nasce torturatori ma lo si diventa e per poterlo diventare bisogna essere disumanizzati. Ci sono dei metodi per diventare dei torturatori. In alcuni paesi ci sono delle formazioni apposite. Spesso sono formazioni traumatiche, per esempio li si obbliga a uccidere i loro genitori oppure con metodi fortemente punitivi. I torturatori sono passati da formazioni disumanizzanti, per cui non percepiscono più l’altro come umano. Altrimenti non potrebbero fare quello che fanno. Sono vittime a loro volta, sottoposti a traumi che gli levano le loro capacità empatiche».
Ai richiedenti asilo, all’interno dei progetti di accoglienza, viene chiesto di ricrearsi una vita in pochi mesi. È difficile per tutti, ma per le vittime di tortura questo rischia di trasformarsi in una missione impossibile…
«È una richiesta insensata. Le vittime di tortura hanno subìto dei traumi profondissimi, che non possono essere rielaborati e superati a comando e che interferiscono con tutte le loro competenze relazionali e adattative. Ignorare questo particolare fa parte della finzione e dell’ipocrisia politica. Per rimettere in carreggiata una vittima di tortura ci vuole un lungo percorso e ci vuole tempo».
In Italia, in particolare durante l’Emergenza Nord Africa, molte persone con problemi psichici hanno fatto richiesta di essere rimpatriate. È corretto rinviare persone che hanno dei problemi psicologici?
«I malati psichiatrici prima andrebbero curati e solo dopo essere usciti dalla fase acuta, se ancora chiedono di andare nel loro Paese, dovrebbero essere aiutati per il rimpatrio. Ma ci sono anche psichiatri che ritengono che il ritorno a casa possa essere positivo per accedere ad una cura tradizionale o far fronte a una forte nostalgia. Ma prima li preparano per il viaggio, e il paziente prima di partire deve essere completamente capace di capire che sta tornando a casa».
Il fatto che la condizione traumatica sia riconosciuta socialmente (per esempio, pensiamo alle vittime di tortura in Cile o nelle prigioni libiche), può aiutare?
«Il trauma resta. Certo che sia riconosciuto socialmente aiuta ma non basta. Bisogna lottare contro l’impunità. Bisogna che coloro che hanno commesso dei crimini come la tortura siano giudicati. La giustizia è necessaria. Ho visto la differenza tra le vittime di tortura da chi ha visto condannare il torturatori e chi no. È vero che crea un sollievo da parte della vittima, non guarisce, ma aiuta enormemente, anche a livello pubblico, il riconoscimento della colpevolezza del torturatore».

Francesca Materozzi