Verso le Europee

Igiaba, il valore di un no

Igiaba Scego - 4 Marzo 2014

1Ormai, ad ogni tornata elettorale c’è chi domanda di avere nella propria lista persone che, al di là delle competenze, rappresentino simbolicamente e spesso astrattamente delle categorie. Una presenza di origine straniera è d’obbligo. Ma…

L’Italia è uno strano paese. Un paese di emigranti. Si emigrava ieri, ma si emigra ancora oggi. Con questa crisi non emigrano solo i cervelli ma, come un tempo, intere famiglie. La valigia non è più di cartone, ma la storia è sempre uguale, si parte, si piange e per non perdere il senno si sussurra con voce tesa Amara Terra Mia di Domenico Modugno. Si parte… si va… si lascia. Ma ancora, nonostante la crisi e la nomea italiana di essere uno dei paesi meno accoglienti d’Europa, si continua ad arrivare. È la geografia, quello stare al centro del Mediterraneo, che porta molte persone ad attraversare la penisola come tappa intermedia verso la Vera Europa o come meta finale perché forse si è troppo stanchi per andare avanti o perché, nonostante tutto, un futuro c’è anche qui, anche se sempre più opaco.

Dagli anni ’70 l’immigrazione è una realtà in Italia. Una realtà fatta di nonni, genitori, figli, neonati. Un mondo etero, transessuale, omosessuale. Un mondo che vuole studiare, amare, curarsi, esistere. Ma la “politica” questo mondo non l’ha mai voluto vedere. Lo tira fuori dal cilindro ogni tanto quando le fa comodo, attraverso slogan vuoti e generalisti. Per il resto, silenzio. E dire che i nodi su questo tema sono molti. Dalla Bossi-Fini che costringe molti migranti ad una vita da sfruttati, alla mancanza di cittadinanza ai figli di migranti. Arriveranno mai le riforme su questi temi delicati? Io, personalmente, sento avvicinarsi sempre più il pericolo di trovarmi davanti a delle riforme accompagnate da grandi titoloni di giornale, ma che al dunque si dimostreranno la forma annacquata dei diritti che vorremmo circolassero davvero nel nostro paese. Ci serve – mi chiedo – uno ius soli temperato-annacquato che dà la cittadinanza di nome e non di fatto? E serve ai tanti migranti nei Cie un lager più umano, come quelli che Adolf Hitler usava come lager di rappresentanza, per dimostrare al mondo che i nazisti non erano poi così cattivi con gli ebrei? La mia testa è attraversata da pensieri duri, scomodi, assai cupi, perché la paura che alberga nel mio cuore è tanta e spesso non so come placarla. Vorrei un’Italia multietnica, di fatto e non solo a parole, ma questa stenta a decollare ahinoi. Forse noi migranti e figli di migranti ci dovremmo prendere lo spazio, il palcoscenico, agire per i nostri diritti una santa volta. Rappresentarci da soli nei palazzi, senza più mediazioni o compromessi. Senza più portavoce, andando dritto al sodo della questione. Ma mi chiedo se nell’Italia di oggi questo sia davvero possibile. Se un’autodeterminazione in politica ce lo permetterebbero.

Stanno per arrivare le elezioni europee adesso. Come ogni elezione, anche quest’anno il mio telefono ha squillato. La solita richiesta di sempre “ti va di candidarti, Igiaba Scego?”. Io a questa solita richiesta rispondo con la mia solita risposta “No, grazie”. Ma è un No che per me è azione politica. Mi succede ormai da anni di dire no. Ho detto no alle politiche, alle regionali, alle comunali, alle municipali. Una volta ho ricevuto quattro telefonate nel giro di 45 minuti da partiti e liste civiche che mi volevano nella “squadra” perché – cito letteralmente – ci serve la tua faccia. In quei momenti una si sente come quelle modelle della réclame francese dello shampoo, tutta fru-fru e parecchio lusingata dell’offerta. Ma poi arriva subito l’amarezza che ti spappola il cuore. Lo senti, purtroppo, che ti hanno chiamato solo per il tuo aspetto e non per il tuo percorso di vita o (parola grossa) per le tue competenze. E anche se vorresti fare la fanatica, darti delle arie, nemmeno puoi, perché in fondo all’anima sai di essere solo una misera figurina Panini e nemmeno di quelle più ricercate. Il sospetto (che spesso è certezza) è che serviamo nelle liste solo per il colore della pelle, la forma delle orecchie, il velo in testa o gli occhi a mandorla. Magari un nome esotico, in fondo naturalmente, fa anche più scena in una lista elettorale dove il vincitore già si sa chi è. Siamo come la carta da parati nella stanza del bambino di casa, facciamo un po’ di colore e parecchia allegria. Ma ecco, la carta da parati fiorata non la useresti per il salotto, quella va bene per la stanza del piccolo. Non puoi sconfinare in salotto… il salotto è proibito per te e per quelli come te. Ma in lista, accidenti, serve un negro, ‘na talebana, un frocio, un handicappato. Magari se sei negro, frocio, handicappato e pure talebana tutto insieme sarebbe anche meglio. Sono dura? Forse. Lo sono quando uso un lessico politicamente scorretto. Ma la realtà di questi anni, l’uso scriteriato, per non dire scempio, fatto sui nostri corpi è stato enorme. Come cambiare?

Aspettare che partiti, movimenti e sindacati cambino autonomamente è pura utopia. Allora forse siamo noi, noi bianchi e neri; atei, cristiani e musulmani; nasi a patata e occhi a mandorla, noi meticci d’Italia, che dobbiamo cominciare a farci rispettare e prenderci carico del futuro del paese. Per questo serve mettere al centro le proprie competenze, il proprio percorso e non più la propria identità. Forse il trucco per una vera rappresentanza è nel far pesare cosa si è fatto e non cosa si è per nascita. Certo, io ho detto no perché so di essere un cane sciolto, una scrittrice riccia che si sente più a suo agio in una biblioteca polverosa che in una assise istituzionale. Sono artigiana di parole e la mia politica è tutta nelle parole che scrivo. Ma per il mio No, spero che ci sia qualcuno che dica Si, lo voglio, mi candido, ci sono, vi rappresento. Qualcuno che la sposi questa benedetta politica che è sempre più difficile da sposare. Ma che lo faccia a testa alta, senza fare la scimmietta del villaggio e senza scendere a compromessi umilianti. Allora, solo allora, quel Si lo voglio ci rappresenterebbe tutte e tutti. Perché quel Si detto con l’orgoglio delle intenzioni, migliorerà la qualità di un paese che sta perdendo il treno della sua umanità.

Però anche i partiti, i movimenti, i sindacati devono cambiare atteggiamento verso di noi. Devono farlo se non vogliono perdere l’unica chance di essere moderni. Valutare i percorsi, non le facce. Io conosco, ad esempio, tanti amministratori locali di origine migrante che negli anni hanno tenuto la schiena dritta e non si sono fatti schiacciare da quello che erano per nascita. Gente che si è occupata di ambiente, mafia, cultura, beni comuni. Persone che quando si sono approcciate ai temi dell’immigrazione sono riuscite ad uscire dalla logica del ghetto. Gente che ha capito e fatto capire che parlare di immigrazione significa parlare dell’Italia, dei diritti di tutti. In questi anni cupi di respingimenti e morti in mare, non a caso i meccanismi repressivi sono stati provati prima sulla pelle dei migranti e poi applicati al resto della popolazione. Una buona rappresentanza di origine migrante dovrebbe far venire alla luce questo e non accontentarsi di slogan annacquati che non ci portano a nulla. Gente preparata, leale, aperta al dialogo, ecco cosa ci vuole. Non a caso uno dei più grossi errori che sono stati fatti negli ultimi anni dai vari rappresentanti di origine migrante, che si sono succeduti in parlamento, è stato quello di chiudere il dialogo con noi, con la società civile fuori dai palazzi. Non solo una chiusura verso i temi, ma verso la collettività che rappresentavamo. Non è un caso che queste persone siano passate poi nella nostra vita come meteore più o meno colorate e che non abbiano lasciato nessuna traccia del loro passaggio in parlamento. Tutti risucchiati da logiche di partito e false battaglie. Questo contrariamente non è successo a livello locale, dove, anche tra mille difficoltà, si è formata una classe dirigente capace di abbracciare i problemi del quotidiano. Quindi per una vera rappresentanza (e non vale solo per chi è di origine migrante) serve non tradire se stessi, i propri percorsi, i propri ideali e stare nelle cose che accadono. Insomma, spero che i rappresentanti che avremo nel futuro non si facciano usare come figurine panini e tirino fuori, qualsiasi sia la loro idea politica, la grinta che hanno dentro. Per quanto riguarda il mio telefono, lo lascerò squillare. Io sono un’artista, anche abbastanza emotiva, farei disastri nei palazzi del potere, non mi ci vedo proprio. E poi lo confesso, eh sì, ho anche la grande presunzione di fare la società civile, un ruolo mica da poco eh? Essere insomma quella cittadina attiva che i rappresentanti consultano perché ne sa di cultura, immigrazione, cooperazione, scuola. Perché anche fare i cittadini è politica. Un impegno non da poco. E anche lì servono tutte le nostre competenze.

Igiaba Scego