Asilo italiano

Le debolezze italiane

Stefano Galieni - 11 Gennaio 2015

Accanto ai “nodi” europei rispetto all’accoglienza umanitaria ce ne sono altri tutti italiani. Eccoli in sintesi:

La dislocazione e il funzionamento di ambasciate e consolati. In questi luoghi, in teoria, si può fare richiesta di protezione umanitaria. Con l’aumento di arrivi  registrato nel 2014, il governo, in particolare il Ministero dell’Interno, ha dato indicazione di utilizzare a questo scopo le sedi diplomatiche. Ma la pratica racconta una realtà differente. Nei paesi di emigrazione e/o fuga le ambasciate sono anacronisticamente poche (mentre ce ne sono tante nei paesi verso cui gli italiani migravano in passato) e inaccessibili (a meno di disporre di corsie preferenziali) e infatti, le richieste inoltrate con questo tramite si contano sulla punta delle dita. Restrizioni di ogni tipo, imposte anche dai governi locali, assenza di personale diplomatico formato in materia, necessità di non interferire negli affari interni dei paesi ospitanti, sono altri fattori che concorrono alla non apertura di questo canale. Lo stesso tipo di difficoltà si riscontra nei paesi di transito. Le sedi diplomatiche italiane raramente si aprono per fornire un documento che permetta di lasciare un Paese in cui si è entrati irregolarmente, indipendentemente dalle ragioni di questo ingresso. Un esempio concreto è costituito dai profughi siriani a cui non è dato modo di ottenere il visto e il titolo di viaggio necessario in paesi limitrofi come Libano, Giordania ed Egitto, trovandosi così costretti a mettersi nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Una revisione del personale dei consolati e delle ambasciate potrebbero evitare il corto circuito ma da sempre sembra prevalere l’indisponibilità, anche da parte del personale diplomatico, ad accettare una riorganizzazione. Aumenterebbe il numero delle cosiddette “sedi disagiate” in cui a stipendi più alti corrisponde esposizione a maggiori rischi.

L’assenza di una legge quadro La Costituzione italiana, all’art.10, garantisce l’asilo a chiunque non veda rispettati, nel proprio paese, gli stessi diritti a cui avrebbe accesso in Italia. Nel nostro però non c’è una legge quadro a garantire il diritto d’asilo. Questo, secondo vari addetti ai lavori, non rappresenterebbe un problema. L’intervento delle direttive europee e il loro recepimento sotto forma di leggi e decreti legge avrebbe permesso di colmare il vuoto. «La stessa Cassazione ritiene che la normativa attuale sull’asilo disciplini in base alla Costituzione e sia più ampia tanto della Convenzione di Ginevra quanto delle protezioni garantite dalle direttive europee», spiega per esempio Sergio Briguglio. «Darsi un’unica legge sarebbe come voler comprimere tutti i casi in un unico file e porrebbe anche la necessità di rinumerare gli articoli dei testi a cui si fa riferimento, creando caos senza ottenere vantaggi». Ma c’è anche chi giudica la cosa diversamente. Alessandra Ballerini, da legale che si ritrova spesso a dover aiutare chi è in difficoltà, afferma: «In linea di principio, una legge organica in qualsiasi materia, ma tanto più in quelle concernenti diritti inviolabili quali quello di asilo costituzionalmente garantito, è necessaria al fine di fare ordine, di non lasciare vuoti normativi, zone d’ombra che debbano di volta in volta essere interpretate discrezionalmente da giudici o pubblica amministrazione». E aggiunge: «Sulla immediata applicabilità del terzo comma art. 10 cost. vi è una giurisprudenza e una discussione in dottrina infinita. Tra l’altro è proprio la costituzione a sancire che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge” e dunque si prevede la necessità di una legge per rendere concretamente fruibile un diritto comunque inviolabile».

L’ingorgo delle commissioni territoriali La valutazione delle esigenze di protezione internazionale dei richiedenti asilo è oggi demandata, in via amministrativa, alle Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale. Le commissioni non funzionano come dovrebbero e sono sempre in ritardo rispetto al numero di richieste da analizzare, in particolare, per due ragioni: 1) c’è una sproporzione tra il loro numero, 30 dopo l’ultimo intervento di ampliamento, e quello delle richieste (solo nei primi 6 mesi del 2014 le domande sono state circa 25 mila, fonti: Rapporto Caritas-Migrantes e Anci); 2) la necessità di muoversi su tutto il territorio per coprire i vari luoghi di accoglienza (Cara, Cpsa, Cas e progetti Sprar) e di operare alla presenza di tutti i componenti previsti dalla legge (un funzionario di carriera prefettizia, alla presidenza, un rappresentante di P.S., uno delle autonomie locali, un esponente dell’Unhcr e l’interprete) rallenta ulteriormente la capacità di intervento. Il decreto 119/2014, approvato la scorsa estate, incrementa il numero delle commissioni e semplifica il loro funzionamento, consentendo a ciascuno dei quattro membri designati di agire autonomamente. E questo potrebbe rappresentare un passo avanti, ma aprire anche preoccupanti spazi di discrezionalità.

Il mancato coinvolgimento della Farnesina Quando si tratta di asilo tutto ricade nelle competenze del Ministero dell’Interno. Un limite perché è il Ministero degli Affari esteri ad avere il quadro aggiornato delle aree di tensione del pianeta. Insomma, informazioni preziose che permetterebbero di rapportarsi coerentemente con l’arrivo di profughi. La condizione di conflitto permanente e di disastro economico e/o ambientale in cui ricade una parte consistente del pianeta, subisce variazioni di mese in mese, richiede analisi accurata e monitoraggio costante, attenzione verso i soggetti che di volta in volta diventano più vulnerabili. Le burocrazie del Viminale, da questo punto di vista, sono lente a comprendere e a reagire, spesso non possiedono neanche i canali giusti per determinare l’insorgere di crisi, cosa che invece è spesso immediatamente percepibile agli Affari Esteri.

L’accoglienza concepita sempre come emergenza  L’accoglienza, soprattutto ma non solo, in Italia, non è mai divenuta un sistema stabile. Nonostante un’esperienza ormai più che ventennale in materia di richieste di asilo, ci si comporta sempre come se si fosse in regime di emergenza. In Italia si è passati dal Piano Nazionale agli Sprar, alle varie forme di centri di accoglienza temporanea, situati in luoghi requisiti all’uopo e dati in gestione a privati, prima sotto il controllo della Protezione Civile (Emergenza Nord Africa 2011) e ora delle prefetture. Un circuito di risorse immenso, in gran parte provenienti dall’Ue, che però non ha mai garantito i percorsi di autonomizzazione dei richiedenti asilo. Recenti inchieste, non solo a Roma, stanno portando alla luce la totale assenza di controllo verso tali strutture. Le prefetture, in accordo a volte con gli Enti Locali e ascoltando, ma sempre in condizione di totale discrezionalità, associazioni umanitarie, Ong, soggetti del terzo settore, appaltano la gestione degli spazi destinati all’accoglienza, sovente senza neanche un bando o una gara di appalto. I gestori sono tenuti a garantire alcuni servizi, cibo, vestiario, assistenza socio sanitaria, pocket money di 2,5 euro al giorno da dare ai richiedenti asilo, in cambio di 35 euro giornalieri per ogni assistito, ma non c’è alcuna verifica sulla qualità del servizio fornito. Gli stessi operatori dei centri sono assunti per lo più senza avere specifiche competenze, con contratti spesso a tempo determinato e compensi al ribasso. Gli amministratori locali lamentano di non poter contribuire a migliorare questo stato di cose sia per assenza di risorse economiche, sia spesso per scarsa competenza e poca volontà di impegnarsi ad operare in un terreno che fa perdere consenso elettorale. Questo perché la presenza dei profughi è considerata una condizione temporanea a cui  rispondere con soluzioni pensate per brevi periodi.

Stefano Galieni