Rom-anzi

Marino, stop and go

Sergio Bontempelli - 15 Aprile 2014

marinoEra stato contestato per le sue politiche in materia di rom e sinti, giudicate non troppo diverse da quelle del suo predecessore Alemanno. Le associazioni, in particolare, avevano preso di mira la cosiddetta “Best House Rom”, la casa di accoglienza destinata alle famiglie sgomberate dai campi irregolari: un luogo – secondo l’Associazione 21 Luglio – privo delle condizioni minime di sicurezza e di abitabilità, inadatto ad un’accoglienza degna di questo nome. Amnesty International, l’European Roma Rights Center (una Ong internazionale con sede a Budapest) e la stessa 21 Luglio avevano poi contestato i ripetuti sgomberi nei campi, eseguiti senza garantire ai rom alcuna soluzione alternativa: una politica non troppo dissimile da quella di Alemanno.

Insomma, il Sindaco di Roma Ignazio Marino era finito, letteralmente, nell’occhio del ciclone: contestato su un terreno – quello dei diritti umani e della tutela delle minoranze – sul quale l’ex medico è notoriamente sensibile. Di sicuro le “attenzioni” delle principali organizzazioni internazionali devono aver procurato qualche fastidio al primo cittadino della Capitale. E infatti, dopo mesi di polemiche, dal Campidoglio era arrivata la prima apertura: a metà Marzo, la Giunta capitolina aveva incontrato i rappresentanti dell’Associazione 21 Luglio. E non era stata una riunione qualunque: perché il Sindaco, accompagnato dai suoi più stretti collaboratori e dai dirigenti comunali, era rimasto ad ascoltare i suoi critici per un pomeriggio intero.

A quasi un mese di distanza da quella prima “prova di dialogo”, ci si può legittimamente chiedere se, nelle politiche romane in materia di rom e sinti, sia cambiato qualcosa. Se, insomma, quel lungo “seminario” pomeridiano abbia prodotto qualche effetto. Certo, le cose non cambiano da un giorno all’altro, e sarebbe ingenuo attendersi un sovvertimento totale di prassi ormai consolidate da anni. Eppure, è legittimo provare a fare un primo, provvisorio bilancio di queste ultime settimane.

Non più “nomadi”… Perché in effetti una piccola novità c’è. Ed è difficile pensare che non sia legata al lungo incontro tenutosi in Campidoglio alla metà di Marzo. In quell’occasione, gli esperti della “21 Luglio” avevano spiegato infatti che i rom e i sinti non sono nomadi: chiamarli così significa avallare scelte discriminatorie ed escludenti, significa dire che i rom devono stare nei campi, e che una politica di inserimento abitativo è inutile. Dunque, non si tratta solo di una questione terminologica, ma di un problema di sostanza.

Almeno su questo punto, Marino ha fatto un passo avanti: con una propria circolare, diffusa la scorsa settimana, il Campidoglio ha vietato l’uso del termine “nomadi” in tutti gli atti amministrativi del Comune di Roma. E ha ribattezzato il proprio “ufficio nomadi” in “ufficio Rom, Sinti e Caminanti”. «Credo che uno dei fattori centrali per superare le discriminazioni», ha scritto Marino nella circolare, «sia quello culturale, affinché l’approccio metodologico di tipo emergenziale possa essere abbandonato a favore di politiche capaci di perseguire l’obiettivo dell’integrazione». E ha concluso: «Anche la proprietà terminologica può essere uno strumento per esprimere lo spessore di conoscenza e consapevolezza degli ambiti su cui si è chiamati ad intervenire. Per questo motivo chiedo che d’ora in poi – nella comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti amministrativi – in luogo del riferimento al termine “nomadi” sia più correttamente utilizzato quello di “Rom, Sinti e Caminanti”».

 … ma sempre nomadi

Tuttavia, l’apparato amministrativo chiamato ad applicare la circolare non sembra attrezzato a questo “cambio di passo”. O – per usare un’espressione scherzosa diffusa nei social network dagli attivisti rom – «proprio un je la fa».

Certo, l’ufficio preposto alla gestione dei campi ha cambiato nome, e anche sul sito del Comune compare in bella vista il titolo “Ufficio Rom, Sinti e Caminanti”. Ma basta leggere le prime righe della pagina web per trovarci di fronte questa frase: «L’Ufficio effettua interventi socio assistenziali (…) necessari al miglioramento della qualità della vita della popolazione nomade». Come dire: chiamiamoli pure “rom, sinti e caminanti”: sempre nomadi rimangono…

Le cose da fare

Se la messa al bando della parola “nomadi” rappresenta un indubbio passo avanti, quasi tutto resta da fare, in termini concreti, su tutti gli altri fronti: superamento e chiusura dei campi, politiche abitative, inserimento sociale, lotta alle discriminazioni. È quanto ricorda l’appello indirizzato al Sindaco Marino da undici organizzazioni della società civile (tra le quali Amnesty International Italia, l’Associazione 21 luglio, Atd Quarto Mondo e numerose sigle attive localmente a Roma).

I firmatari del documento contestano in particolare l’impegno dell’Amministrazione per il rifacimento del nuovo «villaggio attrezzato» di via della Cesarina (di fatto, l’ennesimo campo nomadi). Una scelta che, secondo le associazioni, è costosa e sbagliata.

Costosa perché, a quanto pare, la ristrutturazione dell’insediamento comporterebbe una spesa di circa un milione di euro (il campo dovrebbe ospitare le 137 persone attualmente collocate nel “Best House Rom” di via Visso). «Per una famiglia rom di 5 persone», si legge nell’appello, «si può stimare una spesa superiore ai 60 mila euro, sommando le spese per l’accoglienza nel Best House Rom a quelle per il rifacimento del campo».

Ma al problema dei costi si aggiunge – secondo le associazioni – quello della filosofia di fondo che ha ispirato le scelte del Comune. Concentrare gli sforzi sulla ristrutturazione di un “campo nomadi” significa «reiterare quella politica di segregazione che negli ultimi trent’anni ha contraddistinto la città di Roma».

«Occorre tra l’altro notare – sottolineano le organizzazioni firmatarie – come la segregazione dei rom, attraverso l’individuazione di “campi nomadi” come unica soluzione abitativa riservata alle famiglie rom indigenti, vada di pari passo con la loro esclusione sociale e il mancato accesso alle “case popolari” che permetterebbero la loro integrazione. Si tratta di due facce della stessa medaglia, coniata dalla precedente giunta capitolina e poi fatta propria dall’attuale».

Per questo, le associazioni chiedono «una svolta epocale», e propongono di impedire la rinascita del campo della Cesarina riconvertendo «l’ingente somma economica stanziata in progetti di inclusione sociale che, data l’entità, possano interessare, oltre alle famiglie rom, anche altre fasce della popolazione romana in disagio abitativo».

«Dalle parole è il momento di passare ai fatti» – conclude Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio – oggi i rom non hanno bisogno di cerimonie ma di scelte politiche che cambino la loro condizione di vita accompagnandoli fuori dai campi. Se gli amministratori romani dicono di voler superare i campi questo è il momento di farlo». La strada, quindi, è ancora tutta da percorrere.

 Sergio Bontempelli